Sindoca, parla l’uomo chiave del caso Safond Martini: «Messo in croce perché ho denunciato uno scandalo ambientale colossale»

Sindoca, parla l’uomo chiave del caso Safond Martini: «Messo in croce perché ho denunciato uno scandalo ambientale colossale»

Vicenza, 14 settembre 2021 – Il nome del consulente aziendale padovano Riccardo Sindoca è spesso finito sulla stampa vicentina. In alcune circostanze si è parlato, tra le tante, di una accusa a carico dello stesso Sindoca perché avrebbe calunniato alcuni funzionari della Guardia di finanza berica. Quella del 53enne Sindoca è una figura di un certo peso. Già, componente di una rete informativa della Nato, come asserito dallo stesso padovano, il professionista è finito più volte al centro di diverse inchieste penali ce hanno fatto scalpore in Italia: basti pensare quella sul rapimento ad opera della Cia dell’imam ed ex spia americana Abu Omar. Per non parlare del cosiddetto affaire Saya-Dssa: in entrambi i casi però il 53enne consulente di Villa del Conte nel Padovano è sempre stato scagionato da ogni accusa uscendo a testa alta dalle inchieste. Ad ogni modo ai taccuini di Lineanews.it il consulente di origini meneghine parla delle liason dangereuse della sua vicenda con l’affaire Safond: uno scandalo ambientale di notevoli proporzioni nel Vicentino ha colpito il comprensorio di Montecchio Precalcino, Villaverla e Dueville.

Senta Sindoca il suo contenzioso con la giustizia vicentina sembra una storia intricata. È vero che lei è stato rinviato a giudizio per calunnia? Come mai?
«Si è vero, sono stato rinviato a giudizio per calunnia. Io però sono sereno perché a processo dimostrerò la mia innocenza, con pari elementi d’indagine che già erano a fascicolo del pubblico ministero: per cui la invito fin d’ora a seguire il processo ed a prendere visione ed analizzare gli atti. Meno sereni saranno invece coloro che da anni ormai cercano di colpirmi per motivi indicibili ma che emergeranno e che in parte sono già emersi».

Lei è a processo per calunnia perché in alcune sue denunce all’autorità giudiziaria avrebbe senza che vi fossero i presupposti preso di mira l’operato della guardia di finanza berica. È così?
«A loro detta sì. Ma le cose stanno in ben altra maniera per mia fortuna».

Sarebbe a dire?
«Alcuni finanzieri nonché parecchi magistrati vicentini nei miei confronti hanno avuto un atteggiamento per il quale non ho parole. Di contro in mio favore parlano gli atti ed il modo in cui sono state esperite le indagini. Nei miei confronti è stata scatenata una autentica caccia all’uomo».

Perché?
«Tutto ebbe inizio quando anni fa mi permisi di chiedere alla Safond-Martini e al suo patron Rino Dalle Rive quello che mi spettava».

Quanto?
«Circa cinque milioni di euro».

Perché lei vantava quel credito?
«Per l’attività da me profusa su esplicita richiesta della società. Una richiesta recapitatami personalmente da Rino Dalle Rive per giunta».

Sì va bene, ma una richiesta per che cosa?
«Per il recupero di un asset, una partita di nichel lavorato in modo speciale, il cosiddetto nichel wire che la società vantava presso terzi, ma di cui non aveva la materiale disponibilità. Il tutto mentre la società quell’asset lo aveva indicato tra le poste di bilancio: con tutti i problemi che una scelta del genere comportava per quanto riguarda la regolarità delle scritture contabili. Ora che senso ha scrivere a bilancio che un bene è nelle proprie disponibilità quando non lo è, posto che così facendo si finisce per fornire informazioni non veritiere ai creditori?».

E poi che cosa accadde?
«La società in prima battuta e successivamente taluni ex componenti del consiglio di amministrazione, che risulterebbero destinatari peraltro di un’azione di responsabilità, mi denunciarono. Mi denunciarono nel 2017».

Quando nello specifico?
«Proprio nella imminenza della presentazione presso il Tribunale di Vicenza della richiesta di accesso alla procedura di concordato preventivo. Faccio presente che quanto mi era dovuto era stato certificato anche da una apposita scrittura notarile regolarmente agli atti. Capisce lei l’assurdo?».

Come mai le parla di assurdità?
«E vorrei vedere. Addirittura, nonostante quel popò di documentazione fui denunciato da Dalle Rive per estorsione ma solo ben due anni dopo i fatti oggetto degli addebiti del Dalle Rive nei miei confronti».

Cioè Dalle Rive avrebbe aspettato ben due anni a denunciarla per estorsione?
«Bravo. E chissà perché. Forse perché il manager sentiva il fiato sul collo del sottoscritto che aveva chiesto il dovuto in tutte le possibili sedi giudiziarie?».

E lei questa cosa come la definisce?
«Grave e ridicola al contempo: ovvero grottesca. Ma la cosa ancor più incredibile è che la stessa magistratura non abbia pesato la condotta di Dalle Rive, quanto meno sospetta, nel modo dovuto: una condotta pretestuosa, buona solo per nuocere nei confronti del sottoscritto».

Sì ma perché ridicola?
«Ma mi scusi. Perché io avevo ogni titolo ad esigere quel credito che avevo preteso con gli strumenti previsti dalla legge. È chiaro che quello fu un tentativo sgangherato e sconsiderato per farmi desistere dalle mie ragioni. Per cui semmai sono stato io ad essere calunniato. Faccio poi presente che nello stesso periodo la società Safond cominciò a navigare in acque cattive. I bilanci traballavano. E io temetti per quanto mi spettava. Ma c’è un ma».

E sarebbe?
«Mai avrei pensato che chiedere il dovuto si sarebbe tramutato in un inferno».

Come mai?
«Mettendo insieme la pratica per chiedere il dovuto, tra le carte di cui entrai in possesso, trovai alcuni carteggi che mi fecero raggelare il sangue».

Di che si trattava?
«Tra quelle carte c’era la missiva riservata di uno degli studi di consulenza legale della Safond. Il quale nell’esercizio dell’incarico si presuppone conferito, suggeriva vivamente ai vertici aziendali di tenere nascosto il reale stato del sottosuolo perché se la cosa fosse venuta fuori, ci sarebbero state gravi ripercussioni, ma questa è una mia supposizione, sul presupposto che magari l’azienda sarebbe già potuta andare a rotoli fin dal lontano 2012».

Lei dice a rotoli. Premesso che il terreno sotto la Safond è contaminato da metalli pesanti, lei usa questa espressione per via di una eventuale bonifica che la società si sarebbe potuta trovare sul groppone?
«Sì proprio così. Una plausibile bonifica milionaria che prima o poi le autorità pubbliche avrebbero chiesto ed i cui costi non erano mai stati accantonati in bilancio anche dopo l’intervenuto carteggio. Lei capisce la gravità di una fattispecie del genere. Non dimentichiamoci che a un tiro di schioppo dal sito della Safond, che si trova tra Montecchio Precalcino e Villaverla nel Vicentino c’è la falda di Novoledo. La quale alimenta gli acquedotti di Padova città e di  Vicenza città. Non dico altro».

Sì ma chi era questo studio legale?
«Quello che fa capo all’avvocato Loris Tosi, per come scritto sulla carta intestata».

Lei parla del professor Loris Tosi? Uno dei più conosciuti docenti di diritto tributario a Ca’ Foscari? L’uomo che per un periodo sostenne i grandi soci di Veneto banca quando quest’ultima assieme a BpVi finì nella burrasca delle ex popolari del Nordest?
«Sì proprio lui. Ecco io auspico che qualche domanda a Tosi la magistratura vicentina l’abbia fatta perché il professore potrebbe spiegare tante cose in ordine a quei carteggi, visto che, altresì, risulterebbe anche creditore egli stesso nell’ambito della procedura di concordato».

Però mi scusi, la guardia di finanza su richiesta dell’ufficio del procuratore di Vicenza e su ordine del gip berico quei terreni li ha effettivamente sequestrati ipotizzando proprio uno stato di degrado ambientale di non poco conto. Che c’entra questa vicenda con la sua?
«Ed è qui che casca l’asino».

A che cosa si riferisce?
«La cosa c’entra e come. Anche se non è mai venuta fuori nella sua interezza. Guardi che era stato proprio il sottoscritto, in ragione di quei carteggi a indirizzare alla procura di Vicenza e successivamente alla Regione Veneto, le opportune segnalazioni: segnalazioni affinché si verificasse se vi fosse ancora in essere e da più anni, uno stato di degrado ambientale da accertare. Fatto questo che ritenni più che grave». 

In che data esattamente lei inviò questa segnalazione?
«Il 4 dicembre 2017 con un esposto penale indirizzato all’allora capo della procura berica Antonino Cappelleri, al pubblico ministero che sorvegliava sulla procedura concordataria nonché al giudice allora delegato per la procedura ossia il dottore Giulio Borella. Poco dopo informai la Regione Veneto».

Insomma, lei avrebbe avvisato tutti?
«Sì. Ma soprattutto io informai l’autorità giudiziaria la bellezza di un anno e passa prima che la magistratura, con tanto di titoloni a giornali unificati, intervenisse col sequestro. Ora io mi domando. In quei mesi di stallo la situazione ambientale è per caso peggiorata? Tra l’altro il mio esposto era stato preceduto, nel mese di novembre del 2017, da un atto di integrazione di denuncia-querela in cui avevo posto in evidenza come gli atti peritali dei beni immobili acclusi alla domanda di concordato preventivo presentata dalla Safond, non prendessero minimamente in considerazione il costo di eventuali possibili bonifiche: ciò nonostante fosse risaputo che il Veneto è terra di fonderie. Io veramente non mi do pace perché tutto è agli atti, tutto è scritto».

Al che uno si domanda perché si è aspettato tutto questo tempo?
«Ecco questa è la cosa che mi ha fatto passare notti e notti insonne. Questa cosa mi fa stare male e mi fa pensare. E poi la dice lunga il fatto che nella prima proposta di piano per accesso alla procedura di concordato dell’anno 2017, la società non abbia mai previsto ed indicato agli atti offerti ai creditori alcunché nell’ottica di una più che plausibile bonifica».

Se le cose stessero così sarebbe una cosa grave perché i responsabili di una procedura sono de facto pubblici ufficiali e sono chiamati a tutelare il bene pubblico soprattutto quando questo coincide con un potenziale credito vantato dalla collettività ossia una plausibile bonifica per usare la sua espressione. Lei che dice al riguardo?
«Io racconto i fatti. E dico che nei bilanci chiusi sino al 31 dicembre 2016 oltre che nella situazione economico patrimoniale assunta a base della prima proposta di concordato nessuna voce venne destinata, al tempo, per una tale eventualità».

Cosa di contro che avvenne solo dopo il suo esposto. Esatto?
«Esatto. Ha capito la mostruosità di questa partita? Faccia conto che rispetto a questa vicenda io comunque non sono rimasto con le mani in mano».

Può essere più preciso?
«Certo. Di fronte a queste aberrazioni ho segnalato quanto occorso alla magistratura ponendo in rilievo altresì la condotta assunta da una pletora di illustri professionisti veneti».

E a quel punto lei che cosa ha pensato?
«Più che altro sarebbe da domandarsi che cosa sono diventato».

Che cosa è diventato?
«Di certo da quel momento sono divenuto il bersaglio rispetto a un sistema più che consolidato a margine dei tribunali e che fattura centinaia e centinaia di migliaia di euro se non milioni e milioni nell’ambito di procedure non troppo dissimili da quella in cui mi sono imbattuto. Si tratta di un ecosistema che, viste le relazioni che obbligatoriamente si vengono ad intrecciare fra professionisti e le diverse autorità deputate nella gestione delle diverse procedure, rappresenta un potere vero e per taluni forse smisurato: un potere che in quanto tale, non deve essere posto in discussione».

Con quali conseguenze sul piano pratico?
«Dico questo perché mentre qualche alto papavero in Regione o in procura se ne stava in attesa di non si sa bene cosa, le attività d’indagine nei confronti del sottoscritto fervevano come in un termitaio del lago Niassa».

Lei è finito a processo anche perché avrebbe ingannato le autorità presentandosi in procura con una divisa troppo simile a quella della polizia di Stato. È così?
«Questa è la storiella, l’ennesima storiella, che certi quotidiani danno in pasto ai gonzi per dipingere Sindoca come il grande ingannatore; cosi da poterlo delegittimare per le cose che contano che hanno a che vedere con la giustizia, con il denaro e con l’ambiente. In realtà io sono stato accusato perché nella foto-tessera della mia carta di identità sono ritratto mentre indosso l’uniforme del corpo al quale appartenni da tanti tanti anni prima dei miei arresti, i corpi sanitari internazionali, una sorta di Croce rossa».

Che cosa ne ricava in questo frangente?
«La cosa ridicola è che quella uniforme ha una cravatta di colore rosso, rosso sgargiante. E anche il più distratto degli appartenenti alle forze dell’ordine sa che la Polizia di Stato in Italia non ha la cravatta rossa. Lei pensi che per lo stesso reato lo stesso corpo internazionale venne indagato dalla magistratura laziale che poi archiviò il tutto, dopo un’istruttoria durata addirittura quattro anni, perché il fatto non configurava alcuna fattispecie penale».

Ergo?
«Ecco a Vicenza però, il codice penale, deve essere stato interpretato in maniera diversa da quanto fatto dalla magistratura laziale a partire da quella di Cassino. Io quel giorno a Vicenza non andai in procura travestito da poliziotto per cercare di carpire chissà quali segreti. Ero andato solo per chiedere che fine avesse fatto proprio l’esposto in materia ambientale che avevo depositato già da oltre due mesi. Non aggiungo altro, non mi faccia salire la pressione». 

Senta Sindoca, quando si parla di Safond un altro capitolo che viene alla mente rispetto alla storia disgraziata di quella società riguarda appunto il cosiddetto affaire del nichel wire, ossia delle matasse di nichel su cui Safond avrebbe investito e che invece si sarebbero rivelate una sòla come si dice nella Capitale. Una sòla rifilata anche al comune di Roma. Vero o falso?
«Questa della sòla del nichel wire è un’altra fesseria, grossa grossa. Anzitutto Safond ha chiesto di accedere ad una procedura di concordato preventivo perché aveva accumulato perdite ingenti. Peraltro in modo assai bizzarro la procedura davanti al tribunale fallimentare di Vicenza per l’ottenimento del concordato è stata avviata da anni, ovvero da gennaio 2017».

In che senso?
«Nel senso che ancora non è dato sapere, per dinci, se il piano di concordatp proposto ai creditori, il quale dovrebbe essere integrato per una seconda volta dopo che era già variato al termine del 2018, avrà o meno il loro placet. Ovvero se dovrà, in caso contrario, purtroppo essere dichiarato il fallimento della stessa società».

Ciò detto?
«Ciò detto il presunto ammanco per il nichel wire equivaleva sì e no a poco più del 27% della perdita risultante dal bilancio chiuso al 31 dicembre del 2016: una chiusura con una perdita pari a 51,3 milioni o giù di lì. Ma c’è un secondo ma in questa storia».

Un altro ma? Quale?
«Io dico presunto ammanco in primis perché il nichel che Dalle Rive pagò alla fine, la Safond, lo recuperò proprio grazie al mio intervento. Che ribadisco ancora una volta mi fu espressamente richiesto e per il quale da Safond e da Dalle Rive io ricevetti formale incarico».

Ed in secundis?
«In secundis se quel materiale non vale un accidenti per quale stra-accidenti di motivo l’azienda leader mondiale per i servizi di ispezione, verifica, analisi e certificazione, che di fatto costituisce un’autorità internazionale che di queste materie lavorate in maniera speciale verifica la qualità e disciplina i prezzi dice il contrario?».

Dove si dichiara il contrario?
«Nella scheda che è nelle mie mani e della quale posso fornire copia a chiunque. E aggiungo. Perché mai il Comune di Roma avrebbe accettato una ingente partita di questo benedetto filo di nichel lavorato quale garanzia di un credito milionario, dallo stesso fornitore di Safond? Tutti fessi nonostante tutti milioni di euro in ballo?». 

Lei ha mai avuto l’impressione che la Safond, che raccoglieva le terre di fonderia di numerosissime acciaierie del comprensorio berico e non solo, abbia negli anni funzionato da buco nero permettendo ad una serie di soggetti di sbarazzarsi dei propri rifiuti con qualche scorciatoia?
«Finalmente c’è uno che fa la domanda delle domande. Che sarebbe da investigare senza eccezione alcuna. Ora spero che sia la magistratura a scoperchiare questo santuario».

Sta dicendo che se si facesse luce sul nome delle imprese che direttamente o indirettamente hanno conferito negli anni alla Safond si scoperchierebbe il pentolone degli, chiamiamoli così, utilizzatori finali?
«Non sono in grado di asserire alcunché e non voglio avanzare illazioni. Dico però che sarebbe cruciare condurre una serie di verifiche capillari. E credo che sia ben possibile: se c’è la volontà ovviamente».

Lei ha scorto delle analogie tra il caso Safond e il caso Miteni?
«E me lo chiede? Per mio conto sono entrambi storie in cui le autorità per anni non si sono accorte, nel senso profondo del termine, di un inquinamento che piano piano si incuneava sotto terra per poi diffondersi come una metastasi, accumulandosi anno dopo anno. Con un corollario devastante: quello per cui oggi c’è il rischio che a pagare le bonifiche, ove fattibili, sia sempre la collettività. Faccio notare che per la vicenda Miteni, dopo anni di vocii, si è pure materializzata una gravissima ipotesi di bancarotta».

Nel 2019 però Rino Dalle Rive è deceduto però. E quindi?
«A questo punto qualche anima bella non pensi di cavarsela dicendo che la partita si è conclusa perché un possibile responsabile è passato a miglior vita. Troppo lunga, troppo articolata, troppo ricolma di soggetti che in seno alle autorità e agli organi di vigilanza avrebbero dovuto controllare, è la black list che alligna sull’affaire Safond».

Lei arrivato a questo punto ha intenzione di fermarsi?
«No, non ho intenzione di fermarmi. Né di farmi spaventare. Anche se qualcuno con ogni mezzo ha tentato di farlo: e mi riferisco anche alla catena degli eventi che mi ha portato all’ultimo rinvio a giudizio per presunta calunnia all’indirizzo della guardia di finanza».

Su di lei però è piovuto un mare d’accuse. Lei è davvero sicuro di avere agire correttamente?
«Certo che ne sono sicuro. La mia versione disvela e disvelerà una realtà ben diversa. Si tratta oltretutto di fatti tutti già ampiamente denunciati e documentati, e sottolineo documentati, anche alla procura della repubblica di Trento, competente per eventuali illeciti penali commessi dai magistrati veneti e denunciati pure per conoscenza alla procura generale presso la Cassazione a Roma, nonché alla commissione bicamerale Ecomafie».

Verrebbe da pensare quindi che in questo momento le frullino per la testa alcune domande precise. Vero?
«Ovvio. Tanto per dirne una. Spieghi ora l’autorità giudiziaria come mai il plico anonimo, che ha determinato l’avvio dell’ultimo procedimento penale a mio carico per presunta calunnia, sarebbe stato per così dire lavorato, presso la residenza di mia madre, in cui all’epoca dei fatti non erano in funzione sistemi di video sorveglianza, e non presso la mia abitazione, i cui sistemi di sorveglianza, invece, avevano sventato previamente, in data 10 aprile 2018, un tentativo di intrusione ad opera di sedicenti soggetti che si erano qualificati essere appartenenti alla Guardia di Finanza. Un episodio in seguito al quale, allertati dalla centrale operativa della società da me incaricata di vigilare sulla sicurezza della mia famiglia e della mia abitazione, intervenivano i carabinieri di Camposampiero sempre nel Padovano».

C’è qualcos’altro che lei chiede alla magistratura?
«Spieghi ancora l’autorità giudiziaria da dove provengono i documenti informatici a me recapitati e protetti dal segreto istruttorio, e come siano fuoriusciti dai luoghi ove dovevano essere gelosamente custoditi e non posti alla attenzione prematura di soggetti estranei. Provi a spiegare questo l’autorità giudiziaria. Sono davvero curioso».  

Lei parla di tentativi di intimidazione. Si riferisce a qualche altro episodio in particolare?
«Ne potrei menzionare altri. Ne cito uno su tutti. Quando il 21 febbraio 2018, nel mentre, come già detto, le procedure esecutive da me avviate nei confronti di Rino Dalle Rive stavano per entrare nel vivo, fui arrestato per quella idiozia della cravatta ingannevole, pur a mio parere in assenza di flagranza, e non posto ai domiciliari come previsto dall’articolo 558 del codice di procedura penale. Ma discettazioni giuridiche a parte, io fui addirittura condotto in stato di fermo nella cella di sicurezza presente presso la tenenza dei carabinieri di Dueville, a pochissima distanza dalla Safond».

Lì che cosa accadde?
«Mi fu riservato un comportamento contro i diritti fondamentali di un uomo, dato che venni privato anche dei miei farmaci per poter respirare: medicinali salvavita come il Ventolin. Poi mi capitò una cosa per la quale non ho aggettivi. Una cosa che non mi so spiegare a tutt’oggi».

Che cosa?
«Ricordo che io fui portato alla tenenza di Dueville dopo essere stato arrestato a Villa Del Conte, ossia nella giurisdizione di Padova, per presunta violazione dell’articolo 497 ter del codice penale».

Sarebbe?
«Possesso di distintivi falsi. Distintivi che poi si sono rivelati tutti autentici».

Tuttavia?
«Tuttavia durante la mia permanenza vicentina in quella caserma ed in quella cella, nel mentre chiedevo di poter andare in bagno, nel corridoio, alcuni soggetti in borghese che devo presumere appartenessero all’Arma dei carabinieri, mi dettero alcuni, chiamiamoli così, consigli».

Consigli?
«Sì, chiamiamoli appunto così. Consigli sulla vicenda Dalle Rive. Consigli affinché io fossi diciamo così, meno arrembante e risolvessi la questione con Dalle Rive. E qui l’asino ci ricasca: che ne sapevano quei signori in abiti civili della mia querelle con Dalle Rive visto che io ero stato tratto in arresto per fatti ben diversi?».

Mi scusi ma è sicuro? Questo per come lei lo racconta è un fatto gravissimo. Per di più la legge impone che vengano conservati gli audiovisivi delle celle di sicurezza delle forze dell’ordine. Immagino che lei abbia chiesto copia di quei nastri. O no?
«Ovvio».

E allora?
«È da oltre due anni che i carabinieri non me li danno. Si rimpallano le responsabilità da Dueville fino al comando generale dell’Arma e financo con l’ufficio del pubblico ministero vicentino. E anche in questo caso il sottoscritto ha denunciato tutto. Tutto circostanziato, tutto documentato come sempre. Io non parlo mai a vanvera. Sono stato addestrato e indottrinato a resistere. Sono stato istruito a sostanziare in modo inequivocabile ciò che affermo».

Lei usa il termine addestrato. Lei ha fatto parte dei servizi segreti?
«Ho servito alcune reti informative in ambito Nato».

Di quale corpo?
«Prima di un servizio informativo della Nato di cui non posso fare il nome. Poi nella Dssa, sempre in ambito Nato».

Una Dssa che qualche giornale a metà degli anni Duemila definì come una polizia parallela nell’ambito del cosiddetto affaire Saya. Vero?
«Mi spiace per lor signori dei giornaloni. Ma anche da quella inchiesta uscii a testa alta come capitò a tutti gli indagati del resto. Il fatto non sussiste scrisse il gip milanese Andrea Ghinetti. Lo ricordo a beneficio di chi sparò i titoloni quando l’inchiesta ebbe inizio, dimenticandosi poi di fare altrettanto quando le accuse si sciolsero come neve al sole».

A Vicenza però l’hanno portata a processo. Quindi?
«Evidentemente la magistratura vicentina ha operato diversamente da quella milanese, mi perdoni l’ironia. Io però non mi fermerò mai, lo ripeto ancora. E non ho intenzione di aggiungere altri dettagli che conosco alla perfezione i cui estremi ho depositato presso diverse sedi istituzionali sia in Italia che all’estero. Aggiungo che anche ad uno dei miei legali è capitata una cosa sospetta».

Ovvero?
«Parlo di un sospetto sabotaggio della vettura a lui in uso, proprio quando il mio legale, l’avvocato Fiorino Ruggio, si stava occupando delle mie traversie: Ruggio è vivo per miracolo. Per non parlare di quanto accadde all’altro mio legale, l’avvocato Giuseppe Di Sera, all’incirca all’altezza del casello autostradale di Loreto Porto Recanati. Ma al momento preferisco non aggiungere altro». 

E ora lei che cosa si aspetta?
«Posto che come insegnato da Nelson Mandela, un uomo non deve mai smettere di sognare per poter vedere un futuro, ecco io vorrei sognare ad occhi aperti che gli organi inquirenti, indaghino con perizia e diligenza, ogni singolo episodio oggetto delle mie segnalazioni alla autorità giudiziaria: episodi sia chiaro sempre documentati. A quel punto sì che potrei sognare di tornare a vivere una vita normale al fianco dei miei affetti in modo da avere pace per ciò che ho passato io in una con le persone a me più care. Per di più alla fin fine il pensiero per cui io sono stato messo in croce perché ho denunciato uno scandalo ambientale colossale mi assale ogni giorno».

Sindoca però dal suo atteggiamento traspare chiaramente anche una questione di orgoglio, anzi di tigna come si direbbe a Roma, che è qualcosa di più sfuggente ma di più puntuto. È vero?
«È vero sì. Io oggi faccio il consulente nel ramo del recupero crediti. Ma sa quante ne ho passate quando operavo nei servizi informativi? Ma le pare che io mi debba far atterrire da una manovra che sembra un mix tra le cospirazioni della Spectre e le pernacchie di Bombolo?».

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